︎︎︎Terraformazioni
Comitato scientifico di collana:
Ernesto Ramon Rispoli (coordinatore) - Università degli Studi di Napoli Federico II
Micol Rispoli (coordinatrice) - Politecnico di Torino
Alessandro Arienzo - Università di Napoli Federico II
Alessandro Armando - Politecnico di Torino
Adam Arvidsson - Università di Napoli Federico II
Gianluca Burgio - Università di Enna Kore
Blanca Callén Moreu - Universidad Autònoma de Barcelona
Nerea Calvillo - University of Warwick
Elena Dellapiana - Politecnico di Torino
Giovanni Durbiano - Politecnico di Torino
Ester Gisbert Alemany - Universidad de Alicante
Ester Jordana Lluch - Universidad de Zaragoza
Jorge Luis Marzo - BAU Centro Universitario de Artes y Diseño de Barcelona
Alvise Mattozzi - Politecnico di Torino
Miguel Mesa del Castillo - Universidad de Alicante
Enrique Nieto Fernández - Universidad de Alicante
Blanca Pujals - Northumbria University
Tomás Sánchez Criado - Universitat Oberta de Catalunya
Federica Timeto - Università Ca’ Foscari, Venezia
Comitato di redazione
Viviana Saitto (coordinatrice)
Nunzia Ambrosino
Luca Esposito
Fabiana Marotta
Maria Masi
Ciro Priore
Vincenzo Valentino
Benedetta Toledo
Terraformare, neologismo dall’inglese terraforming, vuol dire rendere un pianeta simile alla terra: renderlo cioè abitabile. La biosfera terrestre è il sistema di supporto di tutte le forme di vita, compresi gli umani la cui esistenza è sempre stata intrinsecamente legata a una qualche forma di “sfera” protettiva, come ha illustrato Peter Sloterdijk. Ma fino a che punto la terra è davvero abitabile? E soprattutto, per chi e per cosa lo è?
Il nostro sguardo è per molti versi analogo a quello di Benjamin Bratton, che recentemente ha posto proprio la nozione di terraformazione al centro di una nuova prospettiva di ricerca. Nell’epoca dell’Antropocene (o del Capitalocene, Piantagionocene, Chthulucene, Ginocene che dir si voglia) l’espressione “terraformare” non si pronuncia più con gli occhi rivolti al cielo e a pianeti lontani, ma guardando piuttosto alla terra stessa: i drammatici effetti dell’estrattivismo intensivo, dello sfruttamento dei suoli e delle cosiddette “risorse” (viventi e non) – pratiche sempre riconducibili, in qualche modo e misura, all’ideologia moderna del progresso – dimostrano come la terra sia un’entità intrinsecamente plastica e fragile, esattamente come i corpi che la abitano. Qualsiasi separazione tra natura e tecnologia perde consistenza, in un mondo modificato quotidianamente ad opera degli umani. La terra è incessantemente terraformata, ciò che realmente importa è capire quali terraformazioni la rendono più (o meno) abitabile, compatibile con la vita.
Ma la riflessione sull’abitare va oltre queste questioni, pur evidentemente cruciali. Nella scia del pensiero postumano, occorre infatti chiedersi in che modo e in che misura il mondo è davvero vivibile per tutte quelle entità che non coincidono con l’uomo – maschio, bianco, occidentale, eterosessuale, “normalmente” abile – posto al centro dell’ontologia umanista moderna: come lo abitano corpi (e soggettività) diversi da quelli normali e normativi? Come lo abitano altre entità non umane? Su quali forme di “contratto”, sempre soggette a ridiscussione, è possibile organizzare questa convivenza?
In tale scenario il design, nel senso più ampio ed esteso di progetto (dalle città agli artefatti industriali, dalle interazioni tra umani e macchine alle reti neurali), ha un ruolo molto più centrale di quanto si è abituati a pensare. Se esso è prima di tutto una pratica ontologica – una pratica capace di ridisegnare, in una qualche misura, le entità da essa interessate – la questione di cosa e come disegnare ha implicazioni che vanno decisamente al di là del ristretto ambito dello styling. Disegnare in questo senso è già terraformare, nella misura in cui è comporre (e ri-comporre) gli “intrecci semiotico-materiali” in cui abitiamo e di cui facciamo parte: intrecci fatti, allo stesso tempo, di materia e di senso.
Quali sono gli effetti del modo in cui stiamo disegnando/terraformando oggi? Come dovremmo invece disegnare/terraformare? Terraformazioni nasce da queste premesse e si pone queste domande. È un’iniziativa editoriale, ma non solo: è anche il tentativo di creare nuova ecologia del pensare, fondata sull’ibridazione di saperi eterogenei di natura teorica e pratica, il cui obiettivo è introdurre tali questioni - oggi più che mai cruciali - nell’agenda di milieux accademici dell’architettura e del design ancora ammaliati dalle sirene della forma e dell’autonomia disciplinare. Parafrasando Donna Haraway, non è importante capire solo quali storie può produrre il mondo ma anche quale mondo possono produrre le storie: quali effetti concreti sul mondo possono avere le nuove “tecnologie di senso” – nuove narrative e metodologie, alternative a quelle oggi dominanti – che elaboriamo, consolidiamo e rendiamo capaci di circolare.
Il nostro sguardo è per molti versi analogo a quello di Benjamin Bratton, che recentemente ha posto proprio la nozione di terraformazione al centro di una nuova prospettiva di ricerca. Nell’epoca dell’Antropocene (o del Capitalocene, Piantagionocene, Chthulucene, Ginocene che dir si voglia) l’espressione “terraformare” non si pronuncia più con gli occhi rivolti al cielo e a pianeti lontani, ma guardando piuttosto alla terra stessa: i drammatici effetti dell’estrattivismo intensivo, dello sfruttamento dei suoli e delle cosiddette “risorse” (viventi e non) – pratiche sempre riconducibili, in qualche modo e misura, all’ideologia moderna del progresso – dimostrano come la terra sia un’entità intrinsecamente plastica e fragile, esattamente come i corpi che la abitano. Qualsiasi separazione tra natura e tecnologia perde consistenza, in un mondo modificato quotidianamente ad opera degli umani. La terra è incessantemente terraformata, ciò che realmente importa è capire quali terraformazioni la rendono più (o meno) abitabile, compatibile con la vita.
Ma la riflessione sull’abitare va oltre queste questioni, pur evidentemente cruciali. Nella scia del pensiero postumano, occorre infatti chiedersi in che modo e in che misura il mondo è davvero vivibile per tutte quelle entità che non coincidono con l’uomo – maschio, bianco, occidentale, eterosessuale, “normalmente” abile – posto al centro dell’ontologia umanista moderna: come lo abitano corpi (e soggettività) diversi da quelli normali e normativi? Come lo abitano altre entità non umane? Su quali forme di “contratto”, sempre soggette a ridiscussione, è possibile organizzare questa convivenza?
In tale scenario il design, nel senso più ampio ed esteso di progetto (dalle città agli artefatti industriali, dalle interazioni tra umani e macchine alle reti neurali), ha un ruolo molto più centrale di quanto si è abituati a pensare. Se esso è prima di tutto una pratica ontologica – una pratica capace di ridisegnare, in una qualche misura, le entità da essa interessate – la questione di cosa e come disegnare ha implicazioni che vanno decisamente al di là del ristretto ambito dello styling. Disegnare in questo senso è già terraformare, nella misura in cui è comporre (e ri-comporre) gli “intrecci semiotico-materiali” in cui abitiamo e di cui facciamo parte: intrecci fatti, allo stesso tempo, di materia e di senso.
Quali sono gli effetti del modo in cui stiamo disegnando/terraformando oggi? Come dovremmo invece disegnare/terraformare? Terraformazioni nasce da queste premesse e si pone queste domande. È un’iniziativa editoriale, ma non solo: è anche il tentativo di creare nuova ecologia del pensare, fondata sull’ibridazione di saperi eterogenei di natura teorica e pratica, il cui obiettivo è introdurre tali questioni - oggi più che mai cruciali - nell’agenda di milieux accademici dell’architettura e del design ancora ammaliati dalle sirene della forma e dell’autonomia disciplinare. Parafrasando Donna Haraway, non è importante capire solo quali storie può produrre il mondo ma anche quale mondo possono produrre le storie: quali effetti concreti sul mondo possono avere le nuove “tecnologie di senso” – nuove narrative e metodologie, alternative a quelle oggi dominanti – che elaboriamo, consolidiamo e rendiamo capaci di circolare.